LOVE ME TENDER

LOVE ME TENDER è lo spettacolo teatrale di Renata Ciaravino e Shi Yang Shi
con Shi Yang Shi e la partecipazione di Marco Ottolini
regia Marcela Serli produzione Nidodiragno/CMC / S.Y.S
scene Maria Spazzi e Marina Conti
costumi Angelo ‘Yezael’ Cruciani
assistenti alla regia Noemi Bresciani e Barbara Bedrina

‘Love-me tender’ racconta la storia di Marco, un ragazzo sensibile, come molti altri. Cresciuto, come tanti, nonostante i ‘buchi’ di un’infanzia apparentemente ordinaria. Marco vuole essere amato; Marco non riesce ad amarsi; Marco convive con un continuo bisogno di conferme. Ha un disperato bisogno di colmare un amore mai ricevuto. Per sopravvivere cercherà una via di fuga nel sesso ma sarà solo l’inizio d’una caduta verso un vuoto ancora più profondo. Sull’orlo dell’irreparabile Marco troverà il coraggio di non annegare e di chiedere aiuto. Perché Marco ha ancora voglia di sorridere, di vivere e di sognare. Perché Marco tornerà ad amare. Alla fine, teneramente. Dopo una profonda indagine sul campo svolta anche in collaborazione con la S.I.I.Pa.C. di Bolzano, LOVE ME TENDER scritto dalla drammaturga Renata Ciaravino e da Shi Yang Shi, parla di dipendenza sessuale usando la chiave della dipendenza affettiva, comune a tutte le dipendenze. Se ne parla poco, proprio perché è un fenomeno estremamente diffuso. La dipendenza affettiva è infatti un disturbo che può coinvolgere tutti, anche chi non ne è cosciente.
Non a caso LOVE ME TENDER nasce in una condizione estrema, in cui la pandemia globale ci ha costretti a condividere tempo e spazio con le stesse persone e ci ha isolati dal mondo esterno. La dipendenza affettiva si ciba di bisogni e ansie latenti e genera dolori così profondi che solo l’attaccamento morboso verso qualcosa sembra placare. LOVE ME TENDER, doveva essere un monologo ma non lo è. Marcela Serli aggiunge un personaggio misterioso in scena, creando una regia a cerchi concentrici, una spirale che va da fuori, dall’esterno, dagli altri, verso il centro, verso l’Io. Un centro intimo, libidinoso, doloroso e meschino, a tratti ridicolo, buffo ma accattivante. Uno spettacolo forte, che nell’affrontare i tabù più profondi, prova a smascherare le cause di quell’insaziabile sofferenza che ci lega al passato e troppo spesso ci impedisce di vivere il presente e vedere un futuro.

LOVE ME TENDER


NOTE DI DRAMMATURGIA di Renata Ciaravino:
C’è una parola che mi colpisce molto. La sento ripetere spesso. Da persone diverse e diverse tra loro. Nei laboratori di scrittura, quando si beve un po’, quando ho la fortuna di assistere al pianto di qualcuno, un amico o magari qualcuno che lo diventerà. Questa parola è INDEGNITA’. Più precisamente: “A volte sento un senso di indegnità”. Deve essere una cosa molto diffusa, mi dico. Forse di questi tempi è facile sentirsi così. Ogni volta che non si raggiunge un obbiettivo che da qualche parte ti eri convinto che dovevi raggiungere. Quando finisce un amore. Quando senti di non sapere fare il genitore. Quando ti guardi allo specchio. A volte sembra non abbia un’origine: è una nube tossica che arriva e travolge tutto. Non ci si sente più degni di nulla, di amore, di attenzioni, di un posto in questo mondo. È una parola molto violenta. Mi viene in mente Creep, una canzone dei Radiohead. Ho sempre pensato fosse una canzone d’amore. Ora mi viene il dubbio che siano le parole di uno che parla a chi semplicemente gli vive accanto. (in ufficio, sull’autobus, a scuola). E che immagina essere salvo. E che immagina essere risolto. E ovviamente, felice.
You float like a feather
Fluttui come una piuma
In a beautiful world
In un mondo bellissimo
I wish I was special
Spero di essere stato speciale
You’re so fuckin’ special
Tu sei così dannatamente speciale
But I’m a creep
Ma io sono un verme
I’m a weirdo…
Sono uno strambo…
What the hell am I doin’ here?
Che diavolo ci faccio qui?
I don’t belong here
Io non appartengo a questo posto.

“Love me tender” parla di dipendenza sessuale, ma in fondo mi sembra quasi una copertura. Per esteso parla di dipendenza affettiva: andiamo meglio, ma ancora non ci siamo. Io direi che parla di tutte le volte che copriamo un dolore con qualcosa di ancora più assordante per non doverlo vivere (di nuovo) quel dolore. A volte lo copriamo col sesso bulimico e pericoloso, a volte con un matrimonio infelice ma consolatorio, a volte con un lavoro che ci intristisce ma che non sappiamo cambiare. Parla, credo, di tutte le volte che desideriamo una trasformazione profonda e non riusciamo. E allora ci prende, nel fondo della notte, quell’angoscia blu in cui sentiamo una sola cosa e molto semplice: non è che noi non riusciamo a essere felici. Noi non potremo mai essere felici perché noi non siamo degni della felicità. Io non so se il teatro curi, non credo. Ma quello che so è che il nostro compito dovrebbe essere quello di mostrare per primi le nostre ferite (in un modo godibile, si spera) e dare allo spettatore, magari non la cura, ma sicuramente la possibilità di sentire che non è da solo a sentirsi così abietto, indegno, non amabile. Così “strambo” certi giorni… 

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